Fecondazione assistita` e` ammessa.E legale anche la maternita` surrogata.
Sono centinaia le coppie sterili che si sono finora rivolte alle cliniche del Paese asiatico per “affittare” uteri.
Si tratta di un businessdi almeno 300 milioni di euro all’anno quello che si è sviluppato in India negli ultimi tempi e che ha interessato finora centinaia di bambini cresciuti all’interno delle cosiddette “mamme surrogate”: donne del posto che spinte dalla povertà decidono di affittare il proprio utero a coppie – per la maggior parte occidentali – impossibilitate a procreare.
Nonostante l’Italia, con la legge 40/2004, vieti espressamente tali pratiche, su internet è purtroppo possibile riscontrare l’esistenza di diversi siti di cliniche indiane che si autopromuovono utilizzando anche la nostra lingua (e che naturalmente sorvolano sulle complicazioni giuridiche successive). I prezzi per un programma di fecondazione di questo tipo si attestano quindi su una media di 19mila euro, con una retribuzione complessiva per ciascuna ospite indiana che non va oltre i 4mila euro.
Tanti soldi per un paese asiatico, i quali permettono a queste donne – solitamente di bassa casta – di poter dare un importante contributo economico alle proprie famiglie. Ma – ci si domanda – in cambio di che cosa? Non solo, infatti, esse si sottopongono a un processo di disumanizzazione costellato da grandissime sofferenze psicologiche, ma si prestano anche al rischio di morire durante il parto in ospedali non sempre all’altezza di un Paese industrialmente emergente. Senza parlare poi, naturalmente, dell’obbligo immorale di dover costantemente sottostare agli ordini delle coppie sterili, le quali hanno la facoltà di poterle fare abortire in qualsiasi momento, interrompendo la gravidanza.
L’assenza di regolamentazioni stringenti e di attenta vigilanza da parte del governo di Nuova Delhi ha inoltre permesso il formarsi di un “mercato della surrogazione” dove agenti senza scrupoli, dopo aver plagiato donne povere, ignoranti e deboli, sfruttano i loro corpi proponendoli alle cliniche indiane come fertili sostituiti di altri; e questo in maniera per giunta “legale”, visto che fanno firmare loro, molto spesso con un’impronta digitale, dei contratti che neanche sono capaci di leggere.
Una della maggiori cliniche indiane che offre servizi di questo tipo si trova nella cittadina di Anand, gestita dalla dottoressa Nayana Patel e da suo marito, Hitesh. Qui oltre una cinquantina di donne, per circa nove mesi, vengono tenute sotto costante osservazione affinché quanto promesso alle coppie sterili sia impeccabile. Le donne pertanto vivono come all’interno di una sorte di comune-prigione dotata di tutte le comodità, vedendo i propri cari solo la domenica e senza poter mai uscire dalle case di proprietà della clinica (eccetto per la periodica visita di controllo all’ospedale più vicino); Hitesh Patel giustifica questa situazione coercitiva sostenendo che “se le nostre donne rimanessero a casa non potremmo sapere cosa stanno facendo. Potrebbero essere al lavoro, e mettere a repentaglio la salute dei bambini. Qui da noi invece seguono una dieta bilanciata e rispettano un giusto riposo. Insomma, per le nostre ospiti è come se si trattasse di una vacanza pagata”. In questo posto fuori dal mondo è inoltre addirittura possibile acquistare ovuli da una donatrice anonima, a circa 200 euro l’uno.
Le forme di “maternità surrogata”, praticate non solo in India, ma anche ad esempio nei civilissimi Stati Uniti e Canada (con costi assai più elevati), sono quindi essenzialmente due: la prima, chiamata “surrogazione tradizionale” consiste nell’utilizzare il seme depositato in clinica dal padre per inseminare gli ovuli della donna-ospitante; la seconda, quella più praticata nel mondo (per via di presunte minori complicazioni affettive) e conosciuta come “surrogazione gestazionale”, si attua impiantando nell’utero del soggetto terzo uno o più embrioni umani; embrioni generati in provetta utilizzando il seme del padre (o di un donatore, se esso è sterile) e gli ovuli della madre (o di una donatrice, in caso di infertilità della donna). In India, la deregolamentazione in materia consente quindi di operare nell’ambito di questo secondo caso con estrema leggerezza: diversi medici infatti, a differenza di quanto succede nei paesi sviluppati, impiantano – per aumentare le possibilità di successo e risparmiare sia sui costi, sia sul tempo – anche quattro embrioni contemporaneamente, riservandosi solo successivamente, in caso siano stati tutti accolti dall’endometrio dell’utero, di sopprimere i feti gemelli eventualmente in eccesso.
Preme allora in conclusione ricordare che il nascituro è sempre prima di tutto un dono e che non esiste alcun “diritto alla procreazione”, “diritto” egoistico capace di sacrificare piccole persone, come sono sia gli embrioni che i feti, al desiderio intemperante di avere un figlio – a qualsiasi costo, in qualsiasi stato e con qualsiasi mezzo.
L’atto unitivo e l’atto procreativo sono poi del tutto inscindibili l’uno dall’altro, perché solo attraverso il loro fondamentale intreccio si ha un atto integralmente umano frutto della vicendevole donazione amorosa di due sposi, unici e insostituibili. Atto integralmente umano che viene mortificato dall’utilizzo di provette da laboratorio in un campo che certamente non è loro proprio, dove si sviluppa un vero e proprio procedimento tecnico-industriale che inevitabilmente porta a trasformare l’essere umano in un mero prodotto mercantile, offendendo con violenza estrema la sua più profonda e inalienabile dignità.